San Miniato arte e tartufo bianco
La città di San Miniato è notoriamente conosciuta non soltanto per la sua cultura e arte, ma anche per il suo pregiato e gustosissimo tartufo bianco.
Non a caso il comune di San Miniato, nella terza settimana di ottobre 2009 e per due week end del mese di novembre 2009 , ha dato l’opportunità a tutti di degustare il tartufo bianco di San Miniato, allestendo ogni mese di novembre, stand percorsi enograstronomici per scoprire il tartufo bianco.
Un evento davvero da non perdere per gli adoratori dell’oro bianco della gastronomia. Il mito del tartufo a San Miniato nasce nel Medioevo, anche se soltanto da circa cento anni l’attività di raccolta del tartufo bianco di San Miniato è regolata per nuclei familiari della località, denominati tarufai.
Si tratta di famiglie ricercatrici di tartufi ciascuna con i suoi misteri trasmessi dagli avi, i suoi cani da tartufo e i suoi percorsi occultati nuovi boschi di rovere, di pioppi e di lecci.
Da venticinque anni è stata realizzata a San Miniato l’Associazione Tartufai delle Colline Sanminiatesi, che raccoglie oltre quattrocento cercatori di tartufi delle Valli dell’Egola, dell’Era e dell’Elsa, tutti corsi d’acqua del fiume l’Arno.
Le ferie e le mostre più importanti dedicate al tartufo di San Miniato sono rappresentante dalla Festa del Tartufo e del Fungo di Balconevisi – San Miniato che si terrà nel terzo fine settimana del mese di Ottobre 2009 e la Mostra Mercato Nazionale del tartufo Bianco delle Colline Sanminiatesi che si terrà nel centro Storico nei giorni 14-15 novembre 2009, nei giorni 21-22 novembre 2009 e nei giorni 28-29 novembre 2009.
Per gli amanti del tartufo bianco di San Miniato che vengono da lontano è prevista per loro la possibilità di usufruire di promozioni per soggiorni vacanze, ovvero le offerte vacanze a San Miniato nei mesi di ottobre e novembre (pensione completa, mezza pensione, pernottamento) nonché di beneficiare dei convenientissimi pacchetti turistici delle offerte last minute San Miniato dedicate al tartufo bianco di San Miniato per i mesi di ottobre e novembre.
San Miniato, come tanti luoghi bagnati dall’Arno, ha una storia di non poca importanza. Sorta come stazione romana a mezza strada tra Pisa e Firenze nel I secolo avanti Cristo ebbe, alla fine dell’VIII dopo Cristo, sotto i Longobardi, una chiesetta dedicata al santo da cui prese il nome il borgo ed il castello, che divenne sede di vicari imperiali. Il primo di questi fu Arnolfo Tedesco, donde l’appellativo di San Miniato al Tedesco.
Nel castello, ove nacque nel 1046 Matilde di Canossa e dove sarebbe stato rinchiuso e si sarebbe ucciso nel 1249 Pier della Vigna, furono ospiti il Barbarossa, Enrico VI, Ottone IV, Arrigo VII ed altri personaggi. Città ghibellina, San Miniato fu spesso in lotta con la guelfa Firenze di Carlo D’Angiò, sicché il Carducci salutava l’antica torre sveva come « labarda levata a minacciare il sottostante guelfo Valdarno ».
Le cronache ricordano due famosi assedi : quello del 1368, quando la città cadde, per tradimento, sotto il dominio di Firenze, e quello del 1530, per opera degli Spagnoli di Carlo V, che, poco tempo dopo, ne furono ricacciati dalle truppe fiorentine di Francesco Ferrucci. Da allora la sua storia sì confonde con quella di Firenze.
Oltre ad aver dato i natali a uomini illustri come Francesco Sforza duca di Milano, il pittore Ludovico Cardi detto il Cigoli, il filosofo Augusto Conti ed il poeta Pietro Bagnoli (e risulta che anche gli antenati dei Borromei di Milano e dei Buonaparte di Corsica erano san-miniatesi), oltre al meraviglioso spettacolo dei suoi colli, che danno un ottimo vino, asciutto e frizzante, San Miniato vanta pregevoli opere d’arte.
Purtroppo del Palazzo Grifoni, per i gravissimi danni subiti nel corso dell’ultima guerra, si può solo ammirare parte della facciata, di pura e sobria linea rinascimentale; della chiesa dei Ss. Jacopo e Lucia, comunemente detta di S. Domenico, di costruzione gotica ma sciupata da successive trasformazioni, i pezzi più notevoli sono una terracotta robbiana ed un sepolcro marmoreo attribuito a Bernardo Rossellino e scolari; il Palazzo Comunale, del XIV secolo, conserva alcuni buoni affreschi nella Sala del Consiglio e S. Maria del Fortino una bella Madonna con Bambino della scuola del Ghirlandaio. Del Duomo ammiriamo la facciata di puro stile romanico ed il quadrato campanile.
Sulla piazza antistante ogni anno, il 25 agosto, festa di S. Genesio, protettore della città e degli artisti drammatici, l’Istituto del Dramma Popolare allestisce, fin dal 1947, uno spettacolo unico in Italia, che tanto successo di critica ha incontrato. Il dramma sacro richiama alla nostra mente, per l’alto livello artistico, l’antico dramma greco, al quale può essere paragonato anche perché lo spettacolo non è una comune rappresentazione, ma un vero e proprio rito.
E giustamente i sanminiatesi ne sono orgogliosi, come sono orgogliosi dell’Accademia di Lettere Scienze ed Arti, la cui origine vien fatta risalire al 1644 e che, dopo aver assunto il titolo di Accademia degli Arridati e poi dei Rinati, ebbe nel 1822 quello di Euteleti ed annoverò soci illustri, dal Foscolo al Manzoni, dal Gioberti a Isidoro del Lungo, a Ferdinando Martini. Sistemata nei locali che ospitano la Biblioteca comunaie (sotto i loggiati di S. Domenico), possiede preziosi manoscritti, incunabuli, edizioni rare, che interessano non solo la storia locale e di Toscana, ma anche quella nazionale.
Le risorse del luogo sono costituite soprattutto dai prodotti agricoli. Secondaria l’industria della paglia per cappelli, dei merletti e dei ricami. Gli uomini che non lavorano la terra vanno a Empoli o trovano un impiego nelle fabbriche di cuoio della vicina Ponte a Egola.
Lasciamo San Miniato e la sua gente, fiera delle nobili tradizioni artistiche e culturali, e, scendendo al piano, diamo l’ultimo sguardo alla risorta torre sveva, che si staglia netta nell’azzurro del ciclo.
Dinanzi a noi Fucecchio e, più in basso, Santa Croce sull’Arno e Castelfranco di Sotto, tutti centri rinomati per la concia delle pelli e per la lavorazione del cuoio. Lontana, dietro Cerreto Guidi, appare, avvolta in una leggera nebbia, la patria di Leonardo da Vinci.
Ci fu un tempo in cui questa pianura, che partendo da Bientina e Ponsacco dilaga verso Pisa e Livorno, era tutta sommersa. Il padule di Fucecchio è oggi l’ultimo avanzo di quella distesa di acque.
Il Serchio, intorno al III secolo a. C., dopo aver allagato il piano di Lucca, si riversava nel vasto lago dì Bientina e raggiungeva il corso dell’Arno presso l’odierna Vicopisano (antica “Auserissola” cioè “Auseris insula” o Isola del Serchio) mentre – nel versante occidentale – riusciva ad aprirsi un varco nei pressi di Ripafratta e andava a confluire nell’Arno presso Pisa.
Ai primi dell’era volgare il delta dell’Arno incominciava da San Giovanni alla Vena e Le Fornacette. Ma, anche quando le acque del fiume, col passare dei secoli ed anche grazie alla costruzione di molti canali “di diversione”, trovarono un letto stabile e la pianura pisana riemerse, gli straripamenti dovettero ripetersi con frequenza.
Ed allora sulla piana allagata rimase un deposito di limo finissimo e di melme argillose che resero la zona particolarmente fertile, il che spiega perché le terre che stiamo percorrendo hanno una produzione agricola eccezionale per quantità e per qualità.
Lasciata Pontedera, che è rinomata più per la produzione sempre crescente delle “Vespe” che per aver dato i natali ad Andrea Pisano, giunti al bivio delle Fornacette, facciamo una breve deviazione per andare a visitare una fabbrica di ceramiche di San Giovanni alla Vena e per ritrovarvi un angolo caratteristico, dove si respira ancora aria d’altri tempi.
La fabbrica è a ridosso del monte ed in parte interrata: vi lavorano una settantina di operai, per lo più ragazze del luogo e dei paesi vicini. Per uno che l’abbia visitata venti o trent’anni fa la novità consiste in un moderno forno elettrico, che sbriga in ventiquattr’ore il lavoro che il vecchio forno compiva in una settimana.
Ma i forni abbandonati stanno ancora lì a testimoniare l’opera di tante generazioni. Nella stanza affumicata troviamo il vecchio figulo intento a portare via il soverchio da un vaso che sta prendendo forma, mentre una fiorente ragazza porta con grazia leggera una tavolata di cocci ancora freschi ad asciugare al sole.
Una volta uscivano dall’antica fabbrica vasi, soprammobili, e mille cianfrusaglie destinate soprattutto ai mercati ed alle fiere paesane, ma oggi i gusti si sono raffinati, cosicché, per accontentare la varia clientela nostrana e forestiera si passa, sia nelle fogge sia nelle decorazioni, dall’antico al moderno, anzi al modernissimo, e alle tazze e vassoi rinascimentali si sono aggiunte ceramiche picassiane e vasi con decorazioni alla Rouault.
Rientrando a Le Fornacette, dal punto d’incrocio della strada che prosegue per Calcinaia e che, aggirando il monte Pisano dal lato est, porta a Lucca, scorgiamo tra torri e mura diroc-cale, posto su un caratteristico colle conico in mezzo a un ciurlo di cipressi svettanti, l’antico castello di Vicopisano, costruito, si dice, su disegno del Brunelleschi. Parallelo al viale alberato che porta a Vico corre il canale della Serezza, che raccoglie le acque del padule di Bientina e che, per non fare ingrossare ancora di più l’Arno – che in questo punto, nella stagione delle piogge o del disgelo, diventa minaccioso per le piene – è stato fatto passare sotto l’alveo del fiume rinchiuso in una lunga e solida “botte”.
Sempre per evitare i disastrosi straripamenti fu costruito fin dal secolo XII, tra Le Fornacette e Madonna dell’Acqua, un “canale di diversione” che, stornandole in parte mediante potenti cateratte, dirigeva le acque del fiume, per il padule di Stagno, alla bocca del Calambrone nel Tirreno.
Fu chiamato Parnaccio. Ma non risolse il problema, cosicché oggi si ritenta con nuovi criteri l’impresa e, con la creazione in atto del moderno “scolmatore”, costruito secondo le leggi più perfette dell’idraulica, si pensa e si spera che definitivamente cessi l’incubo degli straripamenti, che danni gravissimi, talora irreparabili, provocano alle colture, alle abitazioni civili ed alle opere d’arte che spesso si trovano a breve distanza dagli argini del fiume.
Ecco ora apparire le prime case di Cascina, l’etrusca città che fu, al tempo delle conquiste romane, una “mansio” o luogo di sosta per le truppe in movimento, poi, nel secolo Vili, “curtis” dei vescovi pisani e, nel periodo delle lotte comunali, castello fortificato continuamente conteso tra Pisani e Fiorentini fino a quando cadde in mano di questi ultimi dopo la celebre battaglia del luglio 1364.
La sua fama è, come tutti sanno, legata alla produzione mobilierà che risale forse alla fine del XVIII secolo (nella farmacia della Certosa di Calci banchi e scaffali portano il nome di un maestro pisano e di due aiutanti cascinesi con la data del 23-11-1795), ma che divenne vera e propria industria solo verso la metà del secolo scorso, quando fu fondata una “Società operaia” e fu aperta la prima “Scuola di disegno” che, col tempo, divenne l’attuale “Scuola d’arte del legno”.
Si formò così una folta schiera di disegnatori, scultori, ebanisti e intagliatori, che tramandarono ai figli i segreti della loro arte.
E le botteghe artigiane si moltipllcarono, la produzione crebbe notevolmente e le “Mostre del mobilio”, divenute permanenti dal 1925, furono sempre più affollate.
Ma, più che negli ampi saloni e gallerie della mostra (o meglio delle mostre, perché oggi sono due) ove viene esposto ‘ciò che di meglio si produce, l’anima di Cascina la troviamo nelle botteghe che si susseguono l’una all’altra ininterrottamente nelle strette viuzze medievali.
Là bisogna andare per vedere la gente intenta al lavoro, l’operaio che, ora curvo sul banco maneggia la pialla o la sgorbia, ora modella con cura il piede di un mobile rinascimentale o pulimenta un tavolo moderno già terminato. L’osserviamo mentre con grande impegno procede nel suo lavoro e poi, soddisfatto, si ferma a contemplare l’opera che sta per uscire dalle sue mani callose.
Fuori intanto si vede passare un ragazzo che spinge pigramente un carretto con alcuni pezzi finiti e si avvia verso il piccolo deposito. E tutt’intorno si respira il caraneristico odore di resina che emana dalle tavole segate di fresco, commisto a quello dell’acqua ragia, delle vernici e dell’alcole.
Così, a Cascina, ogni giorno, in ogni strada, in ogni angolo, nel centro ed alla periferia; e così anche nei paesi limitrofi, di qua e di là d’Arno, a Ponsacco, a San Frediano, a Navacchio come a San Giovanni e a Lugnano.
Questi artigiani sono tanto orgogliosi dei loro “pezzi fini” che non si rassegnano facilmente ad accontentare un cliente bislacco che richiede qualche mobile stravagante ed hanno talmente innato il senso estetico da sentirsi offesi da ogni manifestazione di goffaggine e di cattivo gusto.
Proprio così! Lasciamo Cascina operosa, la sua elegante pieve romanica ed il suo oratorio di S. Giovanni Decollato, del XIV secolo, e riprendiamo il nostro viaggio verso Pisa.
Da Cascina fino a Navacchio è un susseguirsi ininterrotto di abitazioni al di qua ed al di là della Statale, né è possibile distinguere dai vari nomi delle frazioni quando una finisce e comincia l’altro.
Nei pressi di San Frediano a Sèttimo una pregevole opera d’arte: la pieve romanica di S. Casciano o Cassiano, del XII secolo, a brevissima distanza dall’Arno. Interessanti i bassori-lievi di Biduino sull’architrave della porta centrale.
Prima di raggiungere Pisa l’Arno fa una grande ansa, la più ampia di tutto il suo corso, e sembra aver trovato il suo letto definitivo tra i larghi “spaltoni”.
Lo vediamo scorrere tranquillo, ben diverso da come lo vedemmo l’ultima volta, nel novembre del ’49, quando le sue acque limacciose e furenti ruppero gli argini all’altezza di S. Michele degli Scalzi a Pisa ed abbatterono con estrema violenza quanto ostacolava la loro corsa devastatrice.
Ora il fiume procede lento e pigro e da ai nostri occhi un vago senso di pace, come la vista delle estreme pendici dei monti che lo fronteggiano, tutte ricoperte di ulivi. Quel manto grigio argenteo che non muta col variare delle stagioni e solo acquista maggiore vivezza quando soffia il vento e le foglie si agitano fremendo, da al paesaggio una dolcezza riposante.
Avvicinandoci a Pisa vediamo allargarsi la visione dei monti: in lontananza, a sinistra, velate di cilestrino, appaiono le cime delle Apuane; di fronte, sul monte Pisano, spiccano i resti dell’antica fortezza della Verruca e le antenne della stazione TV di Monte Serra.
Attraversiamo Pisa e lasciamo alle nostre spalle la chiara ed armoniosa facciata di S. Paolo a Ripa d’Arno e, dall’altra sponda del fiume, la ricostruita Cittadella sul vecchio arsenale, che più di qualsiasi altro monumento ci ricorda le glorie di Pisa marinara. Solo ora l’Arno, che porta lentamente il suo silenzio verso la foce, ci appare veramente maestoso.
A un certo punto, dal bel viale alberato che stiamo percorrendo, si stacca una strada polverosa : a poca distanza vediamo profilarsi l’imponente sagoma di una chiesa dall’inconfondibile stile romanico-pisano.
Si tratta della celebre basilica di San Piero a Grado, che risale molto probabilmente ai primi del secolo XI e che – secondo un’antica leggenda della quale da molto tempo si cerca di assodare il grado di consistenza – – sarebbe stata innalzata sul luogo ove S. Pietro durante la sua “navigatio” da Antio-chia a Roma avrebbe posto piede prima di raggiungere la città eterna.
L’antica denominazione “ad gradus arnenses” dice senz’altro che in questo luogo doveva esserci un approdo e sappiamo del resto da Strabo-ne che ai suoi tempi (I secolo) il mare arrivava appunto qui.
Gli scavi eseguiti sotto l’altare (che appare fuori centro tra le colonne della navata centrale) ai primi di questo secolo dal sovrintendente prof. Peleo Bacci e ripresi in questi ultimi tempi con maggiore impegno e perizia dall’attuale sovrintendente prof. Piero Sanpaolesi, benché non ultimati, sembrano aver contribuito a chiarire il problema ed a stabilire alcune solide premesse per un capitolo molto importante della storia dei monumenti pisani.
La basilica presenta una curiosa caratteristica : non ha facciata, ma un’abside al suo posto. Dall’altro lato è triabsidata.
Proseguendo il nostro cammino lungo il viale alberato, vediamo farsi sempre più numerosi eleganti “chaléts” costruiti su palafitte ai margini del fiume. Essi costituiscono la meta di molti pisani che, nei giorni liberi dal lavoro, si danno convegno su questi spalti erbosi e passano lunghe ore al piccolo argano che aziona la “bilancia” e poi, fatto un breve spuntino a base di zuppa, formaggio fresco e pesce fritto, si sdraiano sui prati vicini a riposare.
Questo semplice svago è il loro modesto week-end. Accanto a questi “chaléts” che hanno una certa pretesa, sopravvivono ancora i caratteristici “capanni” dal tetto di paglia, i quali però tendono a scomparire.
Siamo ormai giunti alla fine del nostro viaggio. Si respira aria marina. Una brezza sottile si è levata e ci ha portato incontro l’odore dei pini e del salmastro. Dall’altra parte del fiume si estende per largo tratto la famosa tenuta di San Rossore, ma qui, dove le acque dell’Arno si confondono con quelle del Tirreno, il paesaggio è brullo. Eppure ha una sua particolare suggestione.
Tutti sanno che Marina di Pisa ispirò numerose liriche a D’Annunzio, tra le sue più sincere e schiette. Ma solo indugiando in questa plaga possiamo intendere e gustare appieno la poesia dei carmi dell’Alcione ispirati dai “silenzi tirrenii – nel deserto Gombo” o dalla “solitudine pura senz’orme della spiaggia di San Rossore” o dalla pioggia che cade “su i pini scagliosi ed irti”.
E ritornano alla memoria i versi de “Le madri”, ove, insieme al colore del paesaggio, domina un vago senso di abbandono, di isolamento dal mondo, di silenzio meridiano.