Colli mansueti di ulivi e di castagni, lente prode di viti, formano la valle della Pescia, matto torrente di acqua limpida ieri, oggi torbido scroscio di spurghi e di scoli. La valle si apre dal settentrione al mezzodì, e placida raggiunge con rade inquietudini di boscaglie e rilievi, le sponde regali dell’Arno. La città di Pescia (nome italico che non sa di pesce) sorge nel punto da cui, a ventaglio, si allargano i colli e la valle si spiana e si dilunga. Non grossa città, paese piuttosto; di nobiltà antica, di toscana bellezza. Capoluogo della vai di Nievole, si imparenta al Valdarno di Sotto, e nella cadenza del dire e nei volti ha un sapore di pisano, e nel respiro, a giorni, un’anima di mare. Ebbe uomini illustri, ha opere d’arte; e lavori e mercati e faccende. Il grande Michele Montaigne passò di qui, ammirò la piazza e le case, gli piacque il vino dei nostri colli, forse un po’ meno, e pur tanto, delle nostre donne; e poi, passando da Montecatini, non volle assaggiarne le acque perché già da quelle del Bagno di Lucca, era ben ripulito dalle sue pietruzze maligne. Il vino sì. Anche il Redi si esilarava di Trebbiano e di Colombano; e il Tommaseo, austero e barbuto, rigustava fra lingua e palato, la schietta parlata di una giovane stupenda e, non ancora cieco, se ne infocava. Ma Pescia è davvero un’industria città. Cartiere, conce, fabbriche di stoviglie, ramai, legnaiuoli di fino. Un tempo anche numerose filande di seta. Le stufe dei bozzoli nuovi, gli alti veroni dove in un brusio di aspi e in un fumare di caldaie si traeva e si facevano matasse di quella bava dorata. E allora, che cori le caldaiole, le maestre, le fattorine; donne sboccate, con le mani bollite. Soprani, contralti; purezze, vibrazioni di una corda di luce, accordi di fili d’argento; e giù, nella via la gente che si ferma e ascolta e appena respira. Allora. Mezzo secolo fa, in ogni casa di contadino si allevavano i bozzoli, nei campi si piantavano e ripiantavano i gelsi bianchi per la foglia, ghiotta pietanza dei bachi. Era stato un paesano, un Buonvicini, che aveva portato da lontano questo fresco mangiare; ma l’allevamento dei filugelli era antico, e la nostra buona seta era usata da tanto dai drappieri lucchesi. Non solo nelle filande, ma in quasi tutte le case del paese si filava e si incannava la seta. In ogni famiglia di popolo c’era un filatore, e velettai e guantaie.
C’erano, sì, anche cappellai che facevano cappelli da bimbo e da uomo, come diceva uno che chiamavano Faliero e che fu uno degli ultimi artigiani, prima che questo lavorio smettesse, “atteso che” diceva ancora, “gli uomini ormai nascevano senza testa e gli altri l’avevano perduta”. Il mercato dei bozzoli era una festa nelle lunghe sere di giugno, quando si incantano sull’orlo della luce. Li portavano in grandi corbelli, chiusi in cima dalle sottane di cambrì delle nonne di casa; mettevano i corbelli a quattro, a sei file nella piazza grande, in quella piazza che cambia di nome ogni volta che, vedova, si risposa. Cupole d’oro soffice e lustro cingono di un’aureola ardente i volti chini delle massaie che aspettano. Vengono i filandieri, scelgono, sbiluciano, alzano grappoli di bozzoli, allungano le mani a tastare la roba, ridono, contrattano, lasciano un polizzino al sensale. Qualche ladruncolo ruba una manciata e scappa e si perde fra le sottane e i calzoni della gente, qualche pezzente traffica di faloppe. E la sera, nelle bettole e nelle osterie, i contadini si saziano di pane bianco, di fritturina, di tonno, di cacio baccellone, e tornano a casa a notte fatta. La massaia regge i soldi; li tiene nella tasca sotto alla sottana o tra la fascetta e il seno. Quei soldi sono suoi e li divide col padrone del podere. Antica saggezza che gli odierni ridistributori della roba degli altri non hanno davvero. La massaia con la sua parte o prepara il corredo alla figliuola o fornisce i letti e la tavola di lenzuola e tovaglie; lui, il padrone, spende la sua a migliorare il podere. Una legge; e non c’erano né maestri né sbirri per codificarla e farla osservare. Ma l’arte di tirare la seta era proprio rischiosa. Da un giorno all’altro fortuna o rovina, e il peggio più spesso. Una filanda spenge le caldaie, un’altra socchiude i veroni. Non che la roba di seta non sia più ricercata, non che le donne vadano a gambe nude; ma dall’Oriente troppa ne giunge, ma gli alchimisti del piombo per oro hanno trovato altra roba, che lustra sì ma seta non è. E le massaie allora non allevano più filugelli, e i coloni svelgono i gelsi. La città di Pescia intristiva. Le donne parvero brutte. La gente se ne andava.
Ma intorno alla città, fra le case, nelle isole in mezzo al torrente, c’erano orti e giardini. Solchi di pomidoro, porche di zucche e lattughe e indivie e radicchi e cavoli; campi e cigli che all’avvicinarsi della primavera fiorivano di anemoni, di narcisi, di giacinti, di tulipani, e lucevano sotto il pacato argento degli ulivi. Qualche paesano ci fu, e camminava a sgembo, col naso al vento, che svelse i bulbi di quei fiori e li vendette a certi olandesi grassi e furbi; e ora, in quei campi, a mezza costa, fra marzo e aprile, c’è forse qualche bocca di lupo, qualche rara campanula. Ma giù, nei campi bassi, in fondo alla valle, dove erano granturchi e saggine, e sedani e carciofi, ora si vedono lunghe distese di garofani e folti di tuberose, di gladioli, di dalie, e il piccolo vento dell’alba muove nuovi profumi, esalta nuove forme e nuovi colori.
I contadini non sono più contadini, gli ortolani non sono più ortolani. Pur restando nell’aspetto e nei modi come erano, hanno trovato, o ritrovato?, una sensibilità, un gusto della bellezza, e segreti e leggerezza di giardinieri di principi. Si sono mossi certamente per un’ansiosa speranza di guadagno, sono giunti oltre al guadagno a un’arte delicata, e forse non se ne sono nemmeno accorti. Come in ogni fare, ci furono intoppi, errori, bivi e smarrimenti. Chi si era vantato bravo, chi non era umile e paziente, chi tra le palpebre socchiuse non vedeva in sogno il miracolo della gemma che è fiore, ma voleva ricchezza, subita e tanta, cadeva e scompariva: e invece i buoni, i sinceri, che amavano e credevano, rimasero e si affinarono verso cose sempre più nobili e belle.
In Riviera, in faccia al mare, da tanti anni si coltivano i fiori; ma là fioriscono in primavera e in autunno, mentre da noi nella grande estate, quando le terre si bruciano di sole e di sete. Da noi, aliti di maestrale la mattina, respiri di tramontana la sera; da noi la buona terra serba un lieve umidore che le portano lame d’acqua sottili. Certo, le opere dell’uomo eccitano e correggono, e anche sciupano a volte, la natura con accorgimenti e premure. Tutto quello che fanno i maghi di fuorivia si sa o si crede di sapere; ma i maghi non sanno tutto quello che facciamo noi. Ogni artista ha un suo segreto, intuisce l’intima ansia del mistero che diviene bellezza. E, o sia la terra o l’aria o qualche magia rimasta e ancor viva e operante fra questa gente di Etruria, i fiori nostri, i garofani nostri, non somigliano a quelli di altri campi e di altre arie. Sono più vivi, più teneri, hanno nuovi colori amorosi, profumi sommessi, steli sottili.