La Valle della Pescia accentra la massima parte – sono centinaia – delle cartiere di Toscana. Le più sono piccole fabbriche che manda avanti il padrone e vi fa lavorare tutta la famiglia. Tutte fabbricano carta di paglia, soltanto due o tre fanno carte buona, da scrivere, una sola, ormai, vecchia di secoli, conserva l’antica fabbricazione a mano. Gli abeti, i faggi, i pini dell’Abetone, gli ultimi castagni del Pistoiese e del Pesciatino, di Cutigliano, di San Marcello, e del Tamburino e di Croce a Veglia, e poi delle Pizzorne lucchesi e delle valli del Serchio e della Lima, della Pescia maggiore e di quella minore; e gli uliveti e le vigne dei colli che scendono al piano, e l’azzurro velario dei monti Pisani, e le striature di nevi e di marmi dell’Alpe, e il senso nell’aria del mare lontano. Così questa parte della Toscana alta di ponente; e con i suoi paesi, i suoi casolari inerpicati sulle cime, aggrappati lassù come Lucchio alla Penna, a strapiombo, tanto che nelle case si entra dal tetto e i bimbi si tengono a catena come i cuccioli perché non precipitino giù; e con certi nomi che sanno di eretico come Aramo, Calamecca, Stiappa, Fibbialla, o di pagano come Villa Basilica, Veneri, Collodi, e quindi Boveglio, il Ponte del Diavolo, Chifenti. Sono molte le cartiere situate nelle valle di Pescia che fabbricano carta ordinaria, di paglia, di cartaccia di raccatto, per rinvolgere, per ondulare, e cartoni da legatori e da scatole e da calzolai; soltanto due o tre fanno carta raro innamorato di buona e vera carta. Per i vecchi cartai, soltanto la carta a mano era carta e spregiavano quella che fabbricavano le macchine. La Valle di Pescia non è famosa soltanto per carta ma anche per la lavorazione del legno. Non a caso a Collodi, nasce un noto maestro d’ascia, il suo nome era Geppetto. Rosso di pelo, ma con una testa lunga a lucchese e un bel gozzo a punta. Nel tempo di magra non sapeva che fare. Non era uomo di conia. Stava solo; non giocava perché non sapeva tenere a mente le carte, non beveva perché il vino gli dava noia. Stava a bottega, si gingillava, preparava una ponitora, una stanga, una zeppa, un nasello per le pile, un burattino per il maglio. Un burattino, già; un pezzo di legno che va su e giù, che si dimena fra il dente dell’albero e la boga. Geppetto durante un’estate lunga, tutta sole, ne fece uno, due, tre; e, chi sa come, per caso, gli venne fatto un burattino vero. Aveva lì un bel rocchio di quercia, e lavorandovi di ascia, sentì un certo tremore tra le fibre del legno, si accorse che l’ascia voleva fare a modo suo. Lui non si raccapezzava. Ad un tratto si accorse che quel coso che aveva lì davanti pareva un ragazzo; lo toccò e lo sentì caldo, vivo, e pensò al figliolo del Piorna, che era un matterugiolo così, che gli faceva le boccacce e rideva e saltava. A Collodi la gente pensò che Geppetto fosse insanito e diceva che quel burattino era un pezzo di legno e via. Ma il figliolo della fattoressa di Collodi, un certo signor Carlo che stava a Firenze e scriveva sui giornali e giocava al Casino, venne un giorno a desinare dalla mamma, e sentì raccontare di Geppetto e del suo burattino. Ci rise e si lisciò il pappafico, ma poi, per quel vizio di scrivere tutto, ci scrisse un libro.
Un divertimento. Credeva che fosse un racconto per i bambini, credeva che quello che lui aveva chiamato Pinocchio non fosse mai esistito, non credeva punto che quella che lui chiamò la Fata dai capelli turchini fosse davvero una bella bambina. Ma Geppetto sì, credeva tutto, era come un babbo con i suoi ragazzi, e piangeva felice, commosso ai giochi, ai malestri di quello sbarazzino e della sua adorabile amica. E ci credeva la gente di Collodi che di notte e a volte anche al sole di mezzogiorno, udiva, e ode ancora, ridere sì, ridere davanti alla statua di Pinocchio e della Fata che sembrano rappresentare il ratto delle Sabine mentre un uccellacelo spacca il petto a beccate e divora il cuore di lei. Lui, lei, quelli lì ? Che risate, gente mia! E poi, figurarsi. Quando uno, venuto di fuori a fare un bel discorso per commemorare il signor Carlo, fruga e rifruga nelle tasche della gabbana non trovò più i fogli che aveva scritti, e si confuse e si impappinò, lì accanto a lui c’erano Pinocchio e la sua Fata, e se la godevano come matti. Erano loro che avevano preso i fogli del discorso e ne facevan passavolanti per i bambini del paese. E poi, e poi. Chi porta tutti i giorni un fiore sulla tomba di Geppetto, un fiore magari rubato nel giardino della villa?
Gli uomini sono buffi, si credono bravi, ma più che bravi. Credono di fare o rifare Pinocchio, sono certi che Pinocchio è un burattino e la Fatina…E allora monumenti, discorsi, banchetti; e moralità e simboli e spropositi. No, gli uomini, poveri uomini, non sanno. Non sanno che c’è una vita nel mondo segreto, che ci sono altre anime, altri cuori, altre forme di essere. La notte è piena di voci, piena di creature. A volte gli uomini, questi impiegati della vita, le sentono, le odono, ma istupiditi dal loro impiego e dal loro poco salario, credono di sognare, e poi, quando si destano, dicono: ho sognato che… non ricordo. Non ricordano. Dio li benedica e li riaddormenti. E intanto Pinocchio va con la Fata nel giardino della Villa Garzoni, e si nasconde, e lei lo cerca, lo trova, lo picchia, lo bacia. Lei, la Fata. Tanto esile che pare un giunco, tanto bionda che sa di azzurro, con gli occhi grandi grandi come fiordalisi fra petali di rose. E Pinocchio la tiene fra le braccia e si strugge perché vorrebbe che le sue braccia fossero più morbide, più calde, per lei. E le dice: se tu non ci fossi, io che sarei? Ma gli uomini non sanno. Stupidi come sono, fanno pagare, con una moneta tosata, il biglietto per lasciar vedere un burattino e una burattina in bronzo. E invece quelli veri, di carne, di respiro, sono dovunque, da sempre e per sempre. Sono nel giardino della Villa a dar acqua al labirinto quando uno sciocco turista vi si è smarrito; sono nella cartiera vicina, la Fata a scegliere e a sperare la carta, e lui, Pinocchio, le respira sul collo e le scioglie un lungo ricciolo di cielo.