Offerte last minute capodanno 2010 a Pisa
Per un veglione 2009-2010 con i fiocchi ai piedi della Torre di Pisa, uno dei simboli più noti in tutto il mondo, in una cornice della Toscana, territori dove la natura regna sovrana.
Un’occasione unica per festeggiare la notte del capodanno 2010, in un incantevole agriturismo oppure in un gradevole hotel a 4 stelle nel centro di Pisa, circondati da tanta gente allegra, con la voglia di lasciare alle spalle il 2009 che per molti non è stato davvero uno dei migliori anni trascorsi.
Quello di Pisa sarà un San Silvestro 2009/2010 all’insegna del risparmio, con cenoni di capodanno all’insegna dell’abbondanza e pernottamenti, anche per una sola notte, davvero convenienti.
Tutto questo è possibile soltanto grazie alle offerte capodanno 2010 a Pisa. Si tratta di pacchetti turistici per festeggiare il 2010, ormai alle porte, fatti ad hoc per le famiglie con figli a carico e per i single.
Per chi invece intende trascorrere il capodanno del 2010, con pochi “spiccioli”, ecco per loro le vantaggiosissime offerte last minute capodanno 2010 a Pisa, con tanto di cenone a prezzi convenienti. Le offerte last minute capodanno 2009, sono concepite in particolar modo per i giovani single, ma anche per le famiglie.
Come è noto Pisa rappresenta davvero uno degli esempi classici di città di cultura e d’arte con la sua leggendaria Torre di Pisa e il famoso Duomo e suoi meravigliosi giardini.
Il Duomo di Pisa dove nella valva sinistra della porta di mezzo della mirabile facciata dello stesso, quella in cui sono scolpite le glorie di Maria, una piccola scultura, a rilievo, assai basso, di bronzo, ove, entro una bella cornice di quel gusto tardo rinascimentale fiorentino in cui la tradizione decorativa ghibertiano-della robbiana comincia a inturgidirsi baroccamente, è raffigurata la porta chiusa, fra due pilastri, d’una cancellata, al disopra della quale svettano, ondeggiando a un venticello di primavera, alberelli gentili.
Ne fa cenno, con delicatezza viva di artista, Alfredo Fanzini nelle bellissime pagine dedicate alla Piazza dei Miracoli nel suo « Viaggio di un povero letterato ».
II motto « Hortus conclusus » che sovrasta la graziosa scultura, e che accenna evidentemente alla verginità della Madonna, potrebbe essere stato un tempo, e potrebbe essere tuttora, nel ricordo e in una parte notevole della realtà attuale, quello della città, già tutta chiusa nella cerchia abbastanza vasta (circa 4500 metri) delle sue mura ghibelline, costruite, dal 1150 al 1300 circa, prima a nord del fiume (ove ne fu abbattuta una assai minore, che chiudeva l’abitato in un angolo fra l’Arno e il suo piccolo affluente Auser od Ozeri, sfociante al Pin circa ove e ora il Ponte di Mezzo), poi anche a sud, dove nel secolo XI era venuto formandosi un quartiere (chinsica) di commercianti e di artigiani, frequentato da molti orientali trafficanti le loro merci (lanerie, seterie, spezie, legnami pregiati) con la città fattasi ormai signora del Mediterraneo Occidentale e largamente spadroneg-giante anche nei paesi del Levante.
Questa cerchia di mura, dai grossi massi della roseo-grigia pietra calcarea del Monte Pisano, si è conservata quasi intieramente a nord dell’Arno, con una sua merlatura secentesca di mattoni, mentre è in gran parte scomparsa a sud, ove la costruzione della ferrovia Roma-Pisa-Genova e della relativa grande e complessa stazione ferroviaria ne impose, dopo la metà del secolo passato, la pressoché completa demolizione.
Tanto a nord quanto a sud, poi, dell’Arno, la città si è andata largamente estendendo nel piano, con la formazione di quartieri periferici per le abitazioni civili e per le industrie, al di là delle mura superstiti, nelle quali sono state aperte nuove porte, anche assai recentemente, e altre già chiuse sono state riaperte.
La funzione delimitatrice, per ora, dell’abitato cittadino è passata così dalla cerchia delle mura al semianello ferroviario di sud e di ovest (linee Pisa-Firenze, Roma-Pisa-Genova, Pisa-Lucca), ma già in più punti anche questo limite appare sorpassato, per i tentacoli edilizi che si spingono ogni giorno più innanzi, lungo le strade che tendono a Viareggio, a Lucca, a Livorno, alla frazione Marina, e lungo quelle che li congiungono fra di loro trasversalmente.
Con l’accaparramento della sponda sinistra dell’Arno e la costruzione del suo primo quartiere meridionale, presto congiunto alla parte più antica da un ponte, oggi scomparso, all’altezza di via S. Maria e di via S. Antonio, fra gli odierni Ponte di Mezzo e Ponte Solferino, Pisa era divenuta, nel suo gloriosissimo secolo XII, quella che i geografi chiamano « città di ponte », cioè una città in cui il ponte o i ponti hanno una funzione essenziale di vita, creano e caratterizzano la fisionomia del centro urbano, ne stabiliscono e ne fissano il costume civile.
Avvenne però per Pisa un fatto tutto particolare, e fu questo che, mentre le altre città fluviali d’Italia avevano costruito e ampliato il loro nucleo originario su di una sponda sola del fiume, in terreno più vastamente pianeggiante, perché sull’altra il loro sviluppo era impedito o menomato da una vicinissima linea di colli (Torino, Firenze, la stessa Roma, in parte anche Verona) o perché così volevano ragioni imperiose di traffico o di produzione agraria (Pavia, ad esempio), Pisa, al contrario, venne a formarsi come una città quasi sdoppiata dallo stesso suo fiume, una città le cui due parti, di estensione fattasi con il tempo pressoché uguale, continuarono (e continuano) ad accrescersi, ad allontanarsi nei loro estremi l’una dall’altra senza che vi si potesse formare un centro urbano regolatore e propulsore di vita cittadina (come, per non uscire dalla Toscana, Piazza della Signoria, a Firenze o Piazza S. Michele a Lucca).
Se ci si pensa bene, la vita civile e più precisamente urbana d’Italia è sempre stata piuttosto vita « di piazza » (la piazza per gli apporti e i contatti economici, per i ritrovi di natura politica, di svago, di riposo, di chiacchiere) che « di strada », e ciò specialmente nell’Italia settentrionale e nella centrale (l’Italia dei Comuni), forse meno spiccatamente nell’Italia meridionale, ove la strada, con gli allineamenti del suo traffico minuto e lo sbocco dei vicoli stretti e male abitabili, conta almeno tanto quanto la piazza, talora di più (Spaccanapoli e Via dei Tribunali a Napoli).
È tipica in quasi ogni nostra città, grande o soprattutto media o piccola che sia, la presenza di una piazza, che è poi « la piazza », quella per cui, in Toscana, per esempio, ci si chiede fra la gente : « O che si dice in piazzai » per informarsi circa la pubblica opinione su di un avvenimento cittadino.
Pisa, ricca di piazze assai interessanti oltre quella dei Miracoli – ove i suoi grandi monumenti religiosi furono volutamente confinati in quell’angolo silenzioso, come per accrescerne il carattere di sacra solennità, ma probabilmente anche col pensiero di salvaguardarli, nella maggiore elevatezza del suolo, dalle piene dell’Arno – non ha propriamente « la piazza ».
Tale non è, nella parte di nord, quella bellissima, nell’eleganza dei suoi monumenti cinquecenteschi e secenteschi, dei Cavalieri, un tempo, sì, centro della minore Pisa medievale, oggi anticamera, quasi, della piazza del Duomo, luogo di puro passaggio e di traffico frettoloso senza una bottega o un caffè; né può esserlo la piazzai di S. Caterina (oggi dei Martiri della Libertà), esempio bellissimo di piazza giardino ottocentesca, un po’ come piazza Carlo Felice a Torino, ma senza il giro accogliente dei portici a botteghe, né la piazza Cairoli, già della Berlina, né la toscanina, con i suoi edifici a sghembo, e semideserta piazza Carrara, né le piccole piazze quasi claustrali dei mercati più centrali (Vettovaglie, Gambacorti), né alcun’altra delle molte, grandi o piccole che siano.
Non può, infine, essere riconosciuta funzione vera e propria di centro alla piazza Garibaldi, immediatamente a nord del rifatto Ponte di Mezzo, perché posta sullo stesso asse, unico, si può dire, del movimento e del traffico urbano, e perciò vietata, nella sua esiguità, alle soste e ai passeggi riposanti di cittadini e di forestieri.
Uno spazio centrale, a ogni modo, ci vuole, nella tradizione urbanistica e nel costume delle nostre piccole e medie città, e i Pisani se lo sono trovato naturalmente in quel tratto del soleggiato Lungarno settentrionale che si stende per un 200 metri, forse, a ovest e per un centinaio di metri a est dell’imboccatura del Ponte di Mezzo.
Qui, seduti sulle spallette dei muraglioni del fiume, di fronte ai caffè dei palazzetti un tempo quasi tutti occupati da alberghi, quando Pisa chiamava a sé frotte di forestieri svernanti, impiegati in ore non di ufficio, pensionati, studenti universitari, gente che dispone d’una mezzora e di un’ora di libertà, anche qualche forestiero incantato dallo spettacolo pieno di luce e di colori del grande arco del fiume, si godono d’inverno il sole delle ore di mezzo, di primavera e d’estate quello della sera che imporpora al tramonto il ciclo m cui si disegnano nette le guglie della piccola noma chiesa della Spina e su cui spiccava scura un tempo la vecchia torre della fortezza di lenente, rovinata nel 1944.
La gente vi passeggia su e giù discorrendo, e tutt’al più allunga i suoi passi fino al Ponte Solferino a ponente e a quello della Fortezza a levante, tutti e due cosi infelicemente diversi, speriamo per ora dai due bei ponti di un tempo, l’uno rosso, nella sua guerresca costruzione di laterizi bianco di marmi l’altro.
Da qualche decennio poi è avvenuto anche questo fatto – non esclusivamente plsano, d’altronde – che un luogo di sosta e di ritrovo cittadino si è andato formando all’estremo nord del Borgo Stretto, all’inizio del suo doppio porticato: una specie di piazza non piazza che la stessa necessità delle coste ha fatto sorgere m uno dei punti di passaggio obbligato e più intenso della città mentre un altro si è formato proprio all’estremo opposto dinanzi alla Stazione Centrale.
La dualità urbanistica di Pisa, dovuta a questo tagliare che l’Arno fa della città in due parti pressoché uguali e senza un centro comune, si accentua e si rivela in tutta la sua quasi crudezza nei periodi, che talora si prolungano per più giorni, delle piene, quasi sempre paurosamente grandiose.
Allora i ponti si fanno intransitabili, e le due parti della città divengono assolutamente estranee l’una all’altra, con danno assai grave per i cittadini, se si pensi che i più importanti servizi pubblici della città si trovano radunati nella parte meridionale di essa.
Il problema della liberazione di Pisa da questo continuo incubo e pericolo è allo studio, anzi pare che si sia prossimi alla sua soluzione con la costruzione di un canale «scolmatore» che, partendo all’incirca all’altezza di Pontedera, dovrà portare direttamente al Tirreno il deflusso sovrabbondante dell’Arno.
Molti anni fa, venne prospettata un’altra soluzione ingegnosa, mediante la formazione di una isola cittadina tra il vecchio corso del fiume e un nuovo ramo che, dipartendosi pressapoco dinanzi a S. Michele degli Scalzi (Le Piagge) si sarebbe ricongiunto col primo all’altezza dell’attuale ponte ferroviario della Roma-Genova.
Questa soluzione avrebbe portato però con sé la necessità, e il beneficio, di uno spostamento dell’attuale sistema ferroviario più a sud e più a ovest, con la costruzione di una nuova stazione, incuneata fra le linee per Genova e per Firenze, nel rione di San Giusto.
Ne sarebbe venuta la possibilità di dare alla città un centro, proprio nel mezzo dell’isola, e precisamente in quella che oggi è la Piazza della Repub- ; blica (già Vittorio Emanuele), sistemata, s’intende, in modo alquanto diverso dall’attuale, che ne fa una piazza intenzionalmente giardino, in realtà uno sbocco, difficilmente transitabile dal pedone e assai poco riposante, di linee convergenti di traffico automobilistico
Messa da parte, almeno per un tempo prevedibilmente abbastanza lungo, questa soluzione o una consimile (data anche la già avvenuta parziale modificazione del sistema ferroviario con la costruzione, nell’ultimo anteguerra, del cosiddetto « collo d’oca » per le comunicazioni con Livorno e Roma) sembrerebbe rinviata sine die la formazione di un centro, di una piazza centrale che concorresse a unificare le due città fluviali.
Verrebbe voglia di pensare alla costruzione di una piazza soprafluviale, comprendente l’attuale Ponte di Mezzo, raddoppiato e allargato con porticati e balconate sul fiume, la quale, escluso dallo « scolmatore » il pericolo delle piene, darebbe alla città un nuovo accento, assai interessante, anche dal punto di vista turistico (la calma contemplazione dello spettacolo del fiume e dei lungarni, il Mediceo, ahimè, privo delle case-torri di un tempo!), di novità urbanistica.
Un « hortus conclusus », dunque, Pisa, ma un « hortus » dal quale la vita è già straripata e straripa in tutte le direzioni, secondo le esigenze del traffico e quelle dello stesso benessere dei cittadini.
Più « conclusus » ancora del pisano, nella compattissima, inalterata cerchia delle mura cinquecentesche, l’« hortus » lucchese, e non minore lo straripamento da esso, alla ricerca di aria e di spazio; ma qui il sistema costruttivo delle mura, completamente diverso, a baluardi e a bastioni oggi foltamente alberati, ne ha assicurata la conservazione, dando loro la funzione utilissima di un lungo pubblico giardino, donde gli sguardi passano dall’interno monumentale della città al pittoresco di piano e di monte degli immediati dintorni.
Minore, a Lucca, lo spazio interno, e assai più denso e compatto il complesso urbanistico relativo; a Pisa, tutt’intorno alle mura e dentro di esse, si stendeva, e qua e là si stende tuttora, una larga fascia di terreno coltivato a orti e frutteti, non solo, ma moltissimi erano i giardini annessi alle abitazioni signorili, oggi, purtroppo, in via di scomparire per la maggior parte, o a causa della speculazione edilizia o perché invasi e deturpati da depositi di materiale per quelle stesse costruzioni o da officine meccaniche e automobilistiche.
La vecchia pianta settecentesca può dare una visione abbastanza chiara della topografia cittadina di un tempo (vi si noti l’infittirsi dei caseggiati e dei vicoli e l’assenza dei vuoti a giardini nei quartieri più popolari e artigianeschi).
Significativa è pure la litografia francese della prima metà del secolo passato che si direbbe disegnata da un aeròstato, tanto ne è felice la visione prospettica, dall’alto, della città e del suo piano, con le grandi anse dell’Arno.
Dei maggiori giardini interni pisani può dirsi in gran parte scomparso il bellissimo dei Rosselmini, a ovest dell’antica Via del Carmine, (oggi Corso Italia) che il Comune di Pisa non potè o non seppe conservare una ventina d’anni fa alla città, alla quale avrebbe dato impareggiabile decoro e respiro (c’è da consolarsi soltanto pensando che l’Opera Pia Cottolengo vi ha costruito padiglioni per le sue necessità caritative, conservandone alcuni tratti dalla stupenda vegetazione); solo in piccola parte è conservato, con qualche eleganza di statue e di nocchie, quello arcivescovile, mentre è divenuto pubblico, con buone trasformazioni di carattere architettonico, il giardino del settecentesco Palazzo Scotto, sorto a cura di quella famiglia di commercianti napoletani imparentatasi con la nobiltà pisana, là dove la cerchia delle mura, vicino all’Arno sì allarga nella bella fortezza del Sangallo.
Chiuso, infine, da una brutta, che pare quasi ostile, lunga muraglia, è il vastissimo Orto Botanico universitario, uno dei più antichi e dei più ricchi d’Italia, quasi quattro ettari di magnifica selva, di aiuole e di serre, che parrebbe non dover essere sottratto ancora a lungo alla ammirazione e all’istruzione di cittadini consapevolmente interessati alla sua conservazione.
Strana e non giusta condizione turistica, quella di Pisa, una città, più che visitata, abbordata dal forestiero, italiano o straniero che sia, frettolosamente considerata in un solo aspetto e non di rado nemmeno intieramente in questo, del suo grande e tanto vario volto urbanistico-artistico.
E’ da chiedersi quali visitatori italiani di Pisa abbiano mai osservato per bene la grande nobile mole gotica di San Francesco, portandosi ad ammirarne il grandioso complesso absidale, vicino a un tratto fra i più belli delle mura; quanti abbiano sostato abbastanza a lungo nella contemplazione delle eleganze costruttive e decorative, già accennanti lontanamente, nella romanicissima Pisa, al gotico di S. Paolo a Ripa d’Arno.
Quanti, infine, si inducano a visitare quel Museo di arte medievale e moderna che è certamente uno dei più completi e dei meglio disposti dei minori Musei d’arte d’Italia e potrebbe, per certi rispetti (la scultura e la pittura pisane dei secoli XIII e XIV) essere annoverato fra i maggiori.
Un’esame attento della città di Pisa, in certi suoi angoli meno noti, potrebbe rivelare non solo allo studioso, ma anche al turista desideroso di ben conoscere, scoprendo e paragonando.
È tempo, mi sembra, che si impari a venire a Pisa non soltanto per una visita frettolosa ai monumenti della Piazza dei Miracoli, o, come spesso accade, anche soltanto alla contemplazione curiosa della « Torre che pende ».
Parlare di Pisa senza dir nulla della Torre di Pisa non è possibile, bisogna riconoscerlo, anche quando si vorrebbe che non se la facesse tutta per sé la parte di richiamo alla Città che grandi spiriti contemplativi e tempre geniali di artisti, dallo Shelley al Leopardi al D’Annunzio, hanno saputo ammirare e amare per ben altri motivi di bellezza fascinosa.