La storia dei fiori e del mercato di Pescia.
La città di Pescia, in Toscana deve la sua fama per per la coltivazione dei fiori.
D’altronde nessuno, né uomo né donna, pensava a vendere quei violi, quegli amorini, quelle gaggie, quei gigli. Nessuno allora pensava che i fiori dei campi, i narcisi, gli anemoni, i tulipani, fossero fiori degni di una santa o di una innamorata. Al più, avevano qualche poco di stima le rose borracine, i pelargoni, le pansé, le camelie, le vainiglie.
Sarebbe curioso seguire la moda dei fiori: sarebbe forse un elemento per la storia del costume e della civiltà attraverso il tempo e le fortune degli uomini.
Poi a Pescia capitò qualche forestiero con l’orologio d’oro al polso, qualche signora con i fianchi alti e gli occhi lunghi, e andavano a cercare gli ortolani e chiedevano cento garofani di quelli lì, che fiorivano nel campetto dietro alla casa.
Ormai, questi fiori di Pescia erano conosciuti, erano apprezzati. I compratori andavano da un orto all’altro; qui una qualità, qui un’altra; e uno ne chiedeva tanto, e uno di più, e uno di meno.
Allora si volle dare ordine a questo nuovo commercio, si pensò di istituire un mercato dei fiori con la sua sede, le sue regole, i suoi tempi.
Nel 1930 furono venduti nove milioni di garofani, senza contare gli altri fiori d’estate; dieci anni dopo, trentasei milioni.
Il mercato dei fiori nel chiostro di Santa Maria non bastava più per tanti fiori e non pareva decente per tanta bellezza e di carne e di foglie. I nostri floricoltori parlavano di costruirne uno tutto nuovo; un grande stanzone sì, però da non far grande spesa. Ma come farlo, ma dove farlo?
Comprarono certi campi a mezza strada fra la piazza grande della città e la stazione ferroviaria. Chiamarono tutti gli architetti d’Italia a concorrere per la costruzione del mercato; tanti presentarono disegni, o come dicono nel loro gergo, elaborati pregevoli.
Fu scelto quello di un gruppo di architetti toscani: Enzo e Giuseppe Cori, Ricci, Savioli e Emilio Brizzi. Il loro progetto è una bella invenzione, una volta alta e leggera, quasi in volo fra verde di olivi e azzurro di cielo.
A Pescia ortolani, mezzadri, padroni di terre, si misero a coltivare garofani, e ne portarono al mercato non decine, ma centinaia di milioni, fra il giugno e l’ottobre.
In questi ultimi anni la produzione dei garofani a Pescia è forse diminuita nei mesi estivi perché alcuni floricoltori pesciatini hanno voluto trasformare un mercato stagionale in un mercato annuale. Hanno perciò costruito numerose serre a Pescia dove il tepore di una piccola estate invoglia le gemme a fiorire anche quando il cielo si aggronda e il gelo rapprende la terra. Ma il tanto non è quello che conta; conta che nel meno e nel più, si cerchi sempre di migliorare a Pescia le coltivazioni, di creare nuova bellezza di forme e di colori. Un Istituto sperimentale aiuta e consiglia i floricoltori, che d’altronde fanno già bene da soli. Ogni anno nel mese di Aprile si tiene una grande Fiera dei Fiori a Pescia e si espongono le fioriture più nuove e più belle. Ogni giorno partono dal mercato di Pescia, ormai d’importanza nazionale, treni e autocarri speciali e portano le ceste dei garofani in tutte le parti d’Italia, e in Austria e in Germania.
Colli mansueti di ulivi e di castagni, lente prode di viti, formano la valle della Pescia, matto torrente di acqua limpida ieri, oggi torbido scroscio di spurghi e di scoli. La valle si apre dal settentrione al mezzodì, e placida raggiunge con rade inquietudini di boscaglie e rilievi, le sponde regali dell’Arno. La città di Pescia (nome italico che non sa di pesce) sorge nel punto da cui, a ventaglio, si allargano i colli e la valle si spiana e si dilunga. Non grossa città, paese piuttosto; di nobiltà antica, di toscana bellezza. Capoluogo della vai di Nievole, si imparenta al Valdarno di Sotto, e nella cadenza del dire e nei volti ha un sapore di pisano, e nel respiro, a giorni, un’anima di mare. Ebbe uomini illustri, ha opere d’arte; e lavori e mercati e faccende. Il grande Michele Montaigne passò di qui, ammirò la piazza e le case, gli piacque il vino dei nostri colli, forse un po’ meno, e pur tanto, delle nostre donne; e poi, passando da Montecatini, non volle assaggiarne le acque perché già da quelle del Bagno di Lucca, era ben ripulito dalle sue pietruzze maligne. Il vino sì. Anche il Redi si esilarava di Trebbiano e di Colombano; e il Tommaseo, austero e barbuto, rigustava fra lingua e palato, la schietta parlata di una giovane stupenda e, non ancora cieco, se ne infocava. Ma Pescia è davvero un’industria città. Cartiere, conce, fabbriche di stoviglie, ramai, legnaiuoli di fino. Un tempo anche numerose filande di seta. Le stufe dei bozzoli nuovi, gli alti veroni dove in un brusio di aspi e in un fumare di caldaie si traeva e si facevano matasse di quella bava dorata. E allora, che cori le caldaiole, le maestre, le fattorine; donne sboccate, con le mani bollite. Soprani, contralti; purezze, vibrazioni di una corda di luce, accordi di fili d’argento; e giù, nella via la gente che si ferma e ascolta e appena respira. Allora. Mezzo secolo fa, in ogni casa di contadino si allevavano i bozzoli, nei campi si piantavano e ripiantavano i gelsi bianchi per la foglia, ghiotta pietanza dei bachi. Era stato un paesano, un Buonvicini, che aveva portato da lontano questo fresco mangiare; ma l’allevamento dei filugelli era antico, e la nostra buona seta era usata da tanto dai drappieri lucchesi. Non solo nelle filande, ma in quasi tutte le case del paese si filava e si incannava la seta. In ogni famiglia di popolo c’era un filatore, e velettai e guantaie.
C’erano, sì, anche cappellai che facevano cappelli da bimbo e da uomo, come diceva uno che chiamavano Faliero e che fu uno degli ultimi artigiani, prima che questo lavorio smettesse, “atteso che” diceva ancora, “gli uomini ormai nascevano senza testa e gli altri l’avevano perduta”. Il mercato dei bozzoli era una festa nelle lunghe sere di giugno, quando si incantano sull’orlo della luce. Li portavano in grandi corbelli, chiusi in cima dalle sottane di cambrì delle nonne di casa; mettevano i corbelli a quattro, a sei file nella piazza grande, in quella piazza che cambia di nome ogni volta che, vedova, si risposa. Cupole d’oro soffice e lustro cingono di un’aureola ardente i volti chini delle massaie che aspettano. Vengono i filandieri, scelgono, sbiluciano, alzano grappoli di bozzoli, allungano le mani a tastare la roba, ridono, contrattano, lasciano un polizzino al sensale. Qualche ladruncolo ruba una manciata e scappa e si perde fra le sottane e i calzoni della gente, qualche pezzente traffica di faloppe. E la sera, nelle bettole e nelle osterie, i contadini si saziano di pane bianco, di fritturina, di tonno, di cacio baccellone, e tornano a casa a notte fatta. La massaia regge i soldi; li tiene nella tasca sotto alla sottana o tra la fascetta e il seno. Quei soldi sono suoi e li divide col padrone del podere. Antica saggezza che gli odierni ridistributori della roba degli altri non hanno davvero. La massaia con la sua parte o prepara il corredo alla figliuola o fornisce i letti e la tavola di lenzuola e tovaglie; lui, il padrone, spende la sua a migliorare il podere. Una legge; e non c’erano né maestri né sbirri per codificarla e farla osservare. Ma l’arte di tirare la seta era proprio rischiosa. Da un giorno all’altro fortuna o rovina, e il peggio più spesso. Una filanda spenge le caldaie, un’altra socchiude i veroni. Non che la roba di seta non sia più ricercata, non che le donne vadano a gambe nude; ma dall’Oriente troppa ne giunge, ma gli alchimisti del piombo per oro hanno trovato altra roba, che lustra sì ma seta non è. E le massaie allora non allevano più filugelli, e i coloni svelgono i gelsi. La città di Pescia intristiva. Le donne parvero brutte. La gente se ne andava.
Ma intorno alla città, fra le case, nelle isole in mezzo al torrente, c’erano orti e giardini. Solchi di pomidoro, porche di zucche e lattughe e indivie e radicchi e cavoli; campi e cigli che all’avvicinarsi della primavera fiorivano di anemoni, di narcisi, di giacinti, di tulipani, e lucevano sotto il pacato argento degli ulivi. Qualche paesano ci fu, e camminava a sgembo, col naso al vento, che svelse i bulbi di quei fiori e li vendette a certi olandesi grassi e furbi; e ora, in quei campi, a mezza costa, fra marzo e aprile, c’è forse qualche bocca di lupo, qualche rara campanula. Ma giù, nei campi bassi, in fondo alla valle, dove erano granturchi e saggine, e sedani e carciofi, ora si vedono lunghe distese di garofani e folti di tuberose, di gladioli, di dalie, e il piccolo vento dell’alba muove nuovi profumi, esalta nuove forme e nuovi colori.
I contadini non sono più contadini, gli ortolani non sono più ortolani. Pur restando nell’aspetto e nei modi come erano, hanno trovato, o ritrovato?, una sensibilità, un gusto della bellezza, e segreti e leggerezza di giardinieri di principi. Si sono mossi certamente per un’ansiosa speranza di guadagno, sono giunti oltre al guadagno a un’arte delicata, e forse non se ne sono nemmeno accorti. Come in ogni fare, ci furono intoppi, errori, bivi e smarrimenti. Chi si era vantato bravo, chi non era umile e paziente, chi tra le palpebre socchiuse non vedeva in sogno il miracolo della gemma che è fiore, ma voleva ricchezza, subita e tanta, cadeva e scompariva: e invece i buoni, i sinceri, che amavano e credevano, rimasero e si affinarono verso cose sempre più nobili e belle.
In Riviera, in faccia al mare, da tanti anni si coltivano i fiori; ma là fioriscono in primavera e in autunno, mentre da noi nella grande estate, quando le terre si bruciano di sole e di sete. Da noi, aliti di maestrale la mattina, respiri di tramontana la sera; da noi la buona terra serba un lieve umidore che le portano lame d’acqua sottili. Certo, le opere dell’uomo eccitano e correggono, e anche sciupano a volte, la natura con accorgimenti e premure. Tutto quello che fanno i maghi di fuorivia si sa o si crede di sapere; ma i maghi non sanno tutto quello che facciamo noi. Ogni artista ha un suo segreto, intuisce l’intima ansia del mistero che diviene bellezza. E, o sia la terra o l’aria o qualche magia rimasta e ancor viva e operante fra questa gente di Etruria, i fiori nostri, i garofani nostri, non somigliano a quelli di altri campi e di altre arie. Sono più vivi, più teneri, hanno nuovi colori amorosi, profumi sommessi, steli sottili.
I maestri di arte floreale italiana della ” FEDERFIORI” partecipano – con idee originali a ” Toscana in Fiore ” in programma a Pescia dal 29 al 31 agosto prossimi . Si tratta di professionisti conosciuti nel gergo popolare come fiorai che ormai da anni conoscono il pregio e l’adattabilità dei fiori di Pescia , infatti i loro più accreditati insegnanti vengono periodicamente al Comicent per tenervi dei ” corsi di arte floreale -linea italiana” per i loro associati. La Federfiori , che è il ramo specialistico della Confcommercio, ha sposato l’idea di Toscana in Fiore che è quella di promuovere la bellezza dei colori dei fiori ” made in Pescia ed in Toscana” ,legandola alle particolarità storico -artistiche della città. I fioristi della Federfiori dunque hanno pensato, utilizzando i fiori di produzione locale e regionale e particolari di questa stagione estiva, di realizzare degli addobbi nelle Chiese e negli altri edifici di interesse storico ed artistico dell’area del Duomo . Hanno pensato poi ad un ” itinerario floreale” , cioè di collocare dei gruppi di fioristi che realizzano composizioni nei luoghi interessati dalla rassegna , creando così un percorso suggestivo ed originale che conduce il visitatore ad apprezzare tutti i siti dove si sviluppa questa edizione estiva di Toscana in Fiore : dalla Porta Fiorentina, al Duomo ed agli altri edifici religiosi , ai Palazzi Nobiliari , agli ingressi dei giardini storici ed agli spazi di Piazza della Maddalena e del lungofiume. Le composizioni vengono eseguite , secondo la linea dell’arte italiana, con l’intento di evidenziare il messaggio di stile e di bellezza che si trasmette con questa unitarietà fra arte , storia e natura. I maestri fioristi della Federfiori inoltre hanno stabilito di eseguire delle composizioni che rappresentano l’evoluzione dello stile dell’arte del dirlo con i fiori . Si vuole rappresentare -nel concreto- lo sviluppo dell’arte floreale italiana nel corso degli anni fino ai giorni nostri , con gli abbinamenti dei colori, l’uso di varie tecniche e la disposizione – in verticale ed in orizzontale- di fiori, verde e complementi di arredo. Si vuole quindi rappresentare dal vivo l’antologia dell’arte floreale , esemplificandola con varie soluzioni di ” centro tavola” , ” bouquet da sposa” , addobbi per matrimonio, battesimo e compleanno ; nonché varie soluzioni di mazzo di fiori , come il ” mazzo classico” , il ” mazzo asimmetrico “, il ” mazzo rotondo con sottomazzo di carta crespata” , il ” mazzo romantico” , il ” mazzo simmetrico” ed il ” mazzo legato” . L’intervento dei fioristi di Federfiori al di là dello scopo dimostrativo è anche di natura pratica , poiché i gruppi al lavoro si sono detti disponibili anche a rispondere alle curiosità del pubblico sul come conservare fiori e piante e quali fiori e piante acquistare nel corso dell’anno, sia per un consumo abituale che per ricorrenze e festività.
Toscana in Fiore – Pescia 29/30/31 Agosto 2008
Pescia 5/8/2008